Tim Cook spinge per una riforma nel sistema di tasse americano

Dopo essere stato chiamato a testimoniare al Senato USA sulle pratiche con cui Apple gestisce la tassazione locale e le movimentazioni di denaro all'estero, Tim Cook lancia la sua idea di riforma sulle tasse dalla D11 Conference.
Dopo essere stato chiamato a testimoniare al Senato USA sulle pratiche con cui Apple gestisce la tassazione locale e le movimentazioni di denaro all'estero, Tim Cook lancia la sua idea di riforma sulle tasse dalla D11 Conference.

Aggiornamento del 29 maggio 2013 – A cura di Rosario

Una riforma delle leggi che regolano le tasse americane: è questa la richiesta di Tim Cook, lanciata dal CEO di Apple in occasione della D11 Conference, dove ha affrontato l’argomento rispondendo alle domande poste dall’intervistatore di AllThingsD. Un tema particolarmente caldo, vista la recente comparsa di Cook davanti al Congresso per testimoniare sull’accusa di aver eluso le tasse insieme ad altre multinazionali statunitensi.

Secondo il capo della società di Cupertino, l’occasione sarebbe stata colta per proporre una riforma nel sistema di tasse, attualmente gravante su Apple con un’aliquota del 30,5%, per un totale pagato di 6,5 miliardi, più di chiunque altro. Ma il problema più grosso, secondo Tim Cook, sta nelle dimensioni del codice che regola le tasse: più di 7.500 pagine, impossibili da capire a dovere, che il CEO di Apple vorrebbe dunque tagliare:

“La Sottocommissione era indirizzata verso certe conclusioni, ma noi abbiamo sentito fortemente di avere un’idea completamente diversa. Abbiamo pensato che fosse molto importante raccontare la nostra storia, vedendola come un’opportunità invece di una rottura di scatole [pain in the ass in originale, NdR], per far capire alle persone quali noi pensiamo siano le vere problematiche.”

Con la proposta di Apple, secondo Cook la sua società non finirebbe per pagare meno tasse, ma anzi anche di più, potendo però reinvestire i fondi provenienti da altri mercati negli Stati Uniti, senza la necessità di pagare tasse su tali fondi.

Si tratta per ovvie ragioni di una materia molto difficile da trattare: se da un lato c’è infatti la possibilità di capire a fondo la questione solo per chi è esperto di economia, dall’altro le tasse e la loro elusione sono tra gli argomenti che maggiormente influenzano l’opinione pubblica.

Via | Techcrunch.com

Elusione tasse Apple, i momenti salienti dell’udienza e le reazioni a caldo

Aggiornamento del 21 maggio 2013.

Nella giornata di ieri, il CEO di Apple Tim Cook, il CFO Peter Oppenheimer e il responsabile di bilancio Phillip A. Bullock sono stati ascoltati come testimoni nell’udienza della Sottocommissione permanente al Senato che sta indagando sulle politiche di elusione delle tasse delle multinazionali statunitensi. La discussione è stata lunga, articolata e ha toccato diversi nodi cruciali, dalla tassazione per il rimpatrio dei capitali esteri fino ad arrivare alla quantità di tasse corrisposte all’estero e alle detrazioni. Una trascrizione dell’udienza è reperibile a questa pagina; su C-Span, invece, chi è interessato può trovare il video completo.

Una delle accuse scagliate contro Apple dagli esperti chiamati alla sbarra è quella di aver creato “entità corporate fittizie” in Irlanda col solo scopo evitare la tassazione statunitense. Cook si è difeso strenuamente, asserendo che non si tratta di “gusci vuoti” ma di strutture con funzioni reali:

Apple fa operazioni vere in posti veri, con impiegati Apple che vendono prodotti veri a clienti veri. Apple è in reagola sia con le leggi che con lo spirito delle leggi, e non spostiamo la proprietà intellettuale all’estero per poi utilizzarla per vendere prodotti negli USA.

E poiché le sussidiarie straniere di Cupertino “catturano il 70% dei guadagni cash a causa della rapida crescita del business internazionale,” va da sé che -nell’ottica di Cook- c’è bisogno di un programma di tassazione agevolato permanente che incentivi il rientro del capitale. “Sforunatamente,” spiega l’iCEO, “il regime fiscale attuale non ha tenuto il passo con l’era digitale. Subiamo un handicap nella nostra relazione coi competitor stranieri che non hanno simili paletti sul libero movimento dei capitali.”

Al che, il senatore John McCain ha chiesto se le operazioni oltreoceano di Apple e le sue immense riserve di denaro non costituiscano un vantaggio sleale nei confronti delle società americane più piccole, ma che operano direttamente all’interno del paese e che quindi non posso godere di triangolazioni o artifici finanziari. La risposta è delicata, ma non entra troppo nel merito:

Apple guadagna quei profitti fuori dagli USA. Per legge e regolamentazione, non sono quindi tassabili negli USA. AOI investe quei soldi oltreoceano e poi gli interessi sugli investimenti vengono tassati negli USA. […] Onestamente, non mi sembra che sia sleale. Non sono una persona sleale.

A un certo punto, dopo qualche encomio per il lavoro fatto, il senatore McCaskill chiede cosa impedisca ad Apple di trasferire bagagli e burattini all’estero, dove il clima fiscale è più lieve. Ma Cook si sente americano, e americana è la cultura di Apple. “È quel che siamo come persone,” ha spiegato non senza un certo lirismo. “Restiamo una società americana anche se vendiamo in Cina o in Egitto,” aggiungendo che non gli è “mai neppure passato per la testa” di spostarsi altrove.

Entrando più nel dettaglio, Cook si è spinto addirittura a suggerire delle aliquote ideali che possano definirsi eque per le multinazionali. Attualmente la tassazione corporate arriva al 35%, ma la speranza è che possa assestarsi sul 20-25%; per quanto concerne il rientro dei capitali, invece, ha auspicato un’aliquota “a singola cifra” e una semplificazione dei meccanismi di tassazione.

Per il Senator Levin, tuttavia, Apple viola eccome lo spirito delle leggi. A suo modo di vedere, le sussidiarie irlandesi non servono ad altro che a rifuggire il fisco americano. E se è vero i guadagni nel continente (soprattutto Messico, Canada e Brasile) sono soggette a tassazione domestica, è pur vero che la stragrande maggioranza del fattura mondiale transita sempre attraverso l’Irlanda. Come dire, Apple è americana fintanto che ne ha da guadagnarne; non appena si parla di soldi, invece, viene accampata la solita manfrina sulla salvaguardia dell’investimento, come se poi guadagnasse poco:

Ricerca e Sviluppo avvengono nel 95% negli USA, dove godete di crediti per R&S e di tutti i benefit che derivano dal vivere in questo paese. Sedete lì, e decidete unilateralmente se continuare con un sistema in cui i profitti vengono spostati in luoghi che non sono sono soggetti a tassazione americana. Tutti sono d’accordo che dobbiamo cambiare il sistema, ma abbiamo bisogno di capire cosa sta succedendo per poterlo fare. Voi prendete decisioni in modo unilaterale; in pratica, tre impiegati Apple, nell 2008, hanno deciso dove questi profitti sarebbe stati tassati o meno. Non è giusto.

Un comportamento certamente poco etico, soprattutto in tempi di crisi, ma assolutamente legale, e questo punto è stato ribadito anche dai rappresentanti del Tesoro e dell’IRS. Qualcuno ha fatto un paragone: se uno gode di una detrazione prevista a norma di legge, poi non si sente certamente in colpa per averne usufruito. E così ritorniamo alla vecchia questione. Apple non agisce nell’ombra; sfrutta semplicemente a suo vantaggio le voragini negli ordinamenti giuridici del proprio e degli altri paesi.

Tant’è che il senatore Rand Paul non ha esitato a definirsi “offeso” dall’udienza. “Se si dovesse mettere qualcuno sotto processo,” ha dichiarato, “allora dovremmo incolpare il Congresso. […] Questa commissione dovrebbe guardarsi allo specchio. È una cosa abominevole,” ha concluso piccato.

“Apple ha eluso 74 miliardi di dollari in tasse,” le accuse del Senato USA

A nulla sono valse le rassicurazioni di Tim Cook. In un memo di quaranta pagine, infatti, una Sottocommissione al Senato USA ha formalizzato le accuse nei confronti di Cupertino, e sono anche molto pesanti: grazie ad un intricato sistema di controllate offshore, Apple ha evitato il pagamento di imposte per ben 74 miliardi di dollari nel periodo che va dal 2009 al 2012.

Non tira una bella aria al Congresso, dove saranno ascoltato tra qualche ora il CEO Tim Cook, il CFO Peter Oppenheimer e il responsabile di bilancio Phillip A. Bullock. L’ipotesi al vaglio degli investigatori di Capitol Hill è che siano state create “operazioni di facciata” e una “ragnatela di filiali all’estero” spesso inesistenti o prive di dipendenti, collocate tutte in paradisi fiscali e utilizzati a mo’ di pedine a seconda delle esigenze. Così facendo, gli utili sono stati spostati di volta in volta là dove risultava più bassa l’aliquota di tassazione.

Un esempio citato rapporto conclusivo del Congresso riguarda una filiale Apple situata in Irlanda che nel 2011 ha realizzato 22 miliardi di profitti ma che ha pagato appena lo 0,05% di imposte. E sempre in Irlanda, un’altra controllata della mela è riuscita nel difficile compito di sfiorare i 30 miliardi di utili completamente esentasse.

“Apple non si è accontentata solo di spostare i suoi profitti nei paradisi fiscali offshore” ha affermato il senatore democratico Carl Levin. “ha cercato il Santo Graal dell’elusione fiscale. Ha creato entità offshore che detengono decine di miliardi di dollari dichiarando al contempo di non avere residenza fiscale da nessuna parte.” Col suo operato, insomma, Apple e le multinazionali simili contribuiscono all’aumento del carico fiscale sui comuni cittadini, e su tutte le realtà che non possono ricorrere ad escamotages simili. E il senatore John McCain, l’ex candidato repubblicano alla Casa Bianca nel 2008, ci è andato giù perfino più pesante; “Apple sostiene di essere uno dei maggiori contribuenti americani” ha detto, “ma è anche uno tra i principali evasori.” Come dire, l’iPad lo paghiamo due volte: quando lo compriamo, e quando versiamo le tasse.

C’è da scommettere che Tim Cook riprenderà con più convinzione e pervicacia il solito mantra: Apple paga già miliardi di dollari di tasse, crea 600 mila posti di lavoro negli USA, e costituisce uno dei principali contribuenti del suo paese. Senza dimenticare che il sistema di tassazione, nato in epoca industriale e applicato a quella digitale, risulta poco indicato e rischia di “minare la competitività degli USA.” Il che è sicuramente vero, per carità, ma non risponde minimamente alle accuse mosse.

E poi, senza offesa, anche noi cittadini avremmo molto da ridire sulla tassazione, ma non è che poi scappiamo in Iralanda ad aprire una filiale offshore.

Il comunicato di Apple prima della testimonianza di Tim Cook al Senato

Aggiornamento delle 11.10

A poche ore di distanza dall’audizione di Tim Cook e degli altri manager della società presso il Congresso, Apple ha rilasciato un comunicato ufficiale, consultabile in formato PDF a questa pagina. Al suo interno sottolinea di aver contribuito a creare migliaia di posti di lavoro negli USA, sia direttamente che indirettamente attraverso fornitori e produttori. In tutto, si fregia di aver corrisposto al fisco americano qualcosa come 6 miliardi di dollari in tasse federali per il 2012, e si aspetta di pagarne 7 miliardi nel 2013.

“Apple non usa trucchi,” si legge nel documento, e rispedisce al mittente le accuse formulate dal New York Times sulle triangolazioni e le procedure in fil di legge che consente alle multinazionali di farla franca col fisco. Anche se la questione di fondo resta. In un altro post ci domandavamo infatti: ma a fronte di che fatturato sono stati versati quei 6 miliardi? E soprattutto, quanti capitali generati dalle vendite negli USA sono stati dragati fuori dai confini patrii? Perché la questione è tutta lì.

Apple […] dà lavoro a decine di migliaia di americani, crea prodotti rovoluzionari che migliorano le vite di decine di milioni di americani e paga miliardi di dollari l’anno al fisco USA in tasse sulle entrate e sulle buste paga. Gli azionisti Apple […] hanno beneficiato del successo della società attraverso l’apprezzamento delle sue azioni e i generosi dividendi. Apple salvaguarda il capitale consegnatole dai suoi azionisti con un management prudente che si riflette nelle molte operazioni internazionali della società. Apple è in reagola sia con le leggi che con lo spirito delle leggi. E Apple paga tutte le tasse richieste, sia in questo paese che all’estero.

Come dire, se c’è davvero un problema è il legislatore col suo approccio lacunoso ad averlo reso possibile. E non è un caso che arrivi a proporre un rinnovato sistema di tassazione che “elimini le tax expenditures (spese mediante imposte), abbassi le aliquote e implementi una tassazione ragionevole sui capitali esteri, così da favorirne il rientro.” Una richiesta comprensibile, visto che nei forzieri di Cupertino sono state ammonticchiate risorse per quasi 100 miliardi di dollari, 2/3 dei quali stoccati offshore.

Ma il documento entra anche più nel dettaglio:

Apple intende rendere chiaro alla Sottocommissione al Senato che non utilizza le sue sussidiarie irlandesi o alcuna altra entità per mettere in campo pratiche come quelle che seguono […]. Nello specifico, Apple non sposta la propria proprietà intellettuale nei paradisi fiscali per poi usarla per vendere prodotti negli Stati Uniti evitandone la tassazione, e neppure si avvale di linee di credito revolving da controllate estere per finanziare le sue operazioni domestiche. Apple non detiene denaro sulle isole caraibiche, né possiede un conto bancario alle Cayman; inoltre, Apple non sposta alcun profitto tassabile dalle vendite agli utenti USA verso le altre giurisdizioni.

Inoltre, la decisione di contrarre debiti per 17 miliardi per finanziare il buyback azionario e la distribuzione dei dividendi, in luogo del rientro dei capitali dall’estero, è stata condotta “nell’esclusivo interesse degli azionisti.”

Tim Cook, Peter Oppenheimer e Phillip A. Bullock saranno sentiti tra poche ore, alle 9:30 ora locale presso la Sottocommissione permanente al senato USA che sta investigando sul caso.

Tim Cook sulle tasse: “Apple paga ogni dollaro dovuto”

Aggiornato da Ruthven il 17 maggio 2013, ore 12:30

Mancano pochi giorni dalla deposizione di Tim Cook davanti alla commissione del Senato americano sullo spostamento dei profitti di Apple in paradisi fiscali ed il mela-CEO si è impegnato nel difendere Apple in un’intervista a Politico.

Sull’argomento, Tim Cook ha assicurato ai giornalisti che “Apple non trasferisce all’estero i profitti che realizza sul territorio americano“. La difesa della compagnia è andata oltre: parlando di tasse, Cook ha tenuto a sottolineare che “Apple paga le tasse su tutti i prodotti che vende sul suolo statunitense, ogni singolo dollaro dovuto“.

Quanto formulato da Cook è perfettamente esatto: Apple paga ogni dollaro di tasse dovuto, non uno di più, malgrado che ottimizzi le imposte sui suoi benefici negli USA e sul suolo americano. Nel 2012, Apple ha subito imposte su circa 25,2% dei benefici, una cifra ben inferiore al 35% medio federale: vari miliardi di dollari di tasse all’anno sono risparmiati ogni anno versando parte del prodotto delle vendite a una filiale domiciliata in Nevada, uno stato dove la fiscalità è molto vantaggiosa. Solo facendo transitare le proprie entrate statunitensi attraverso la sede di Reno, in Nevada, Apple risparmia l’8,84% di tasse aziendali dovute allo stato della California.

Tim Cook ha evitato di parlare delle quote internazionali di Apple, per un semplice motivo: complessi giochi di scatole cinesi e succursali in paradisi fiscali fanno sì che Apple paghi solamente il 1,9% di tasse sui profitti generati all’estero. In pratica, si sfruttano le lacune nelle varie legislazioni del mondo: si spostano quindi i profitti in paesi dove la tassazione è più leggera. Un esempio del quale abbiamo parlato in altre occasioni è il cosiddetto “Doppio irlandese con sandwich olandese” (Double Irish With a Dutch Sandwich), una procedura che consiste nel trasferire il capitale verso le sussidiarie irlandesi e olandesi, per poi traghettare il tutto nei Caraibi. Si tratta d’una tecnica piuttosto nota e del tutto legale, utilizzata anche da molte altre multinazionali come Google, Amazon, Facebook e Starbucks.

Elusione tasse, Tim Cook testimonierà al Senato USA

Scritto da: Giacomo Martiradonna – venerdì 16 maggio 2013, ore 10:00

Tim Cook è stato infatti convocato per la prossima settimana dalla Sottocommissione permanente al Senato sulle Investigazioni, un’emanazione della Commissione al Senato sulla Homeland Security and Governmental Affairs (cioè la sicurezza interna e gli affari governativi). L’udienza, dal titolo evocativo “Offshore Profit Shifting and the U.S. Tax Code – Part 2” (“Spostamento dei profitti nei paradisi fiscali e il codice di tassazione degli USA parte seconda”) si terrà 9:30 del mattino di martedì 27 maggio negli uffici Dirksen del Senato.

Il primo a dare la notizia è stato Politico, che scrive:

La Sottocommissione continuerà l’esame delle strutture e dei metodi impiegati dalle corporazioni multinazionali per spostare i profitti nei paradisi fiscali, e servirà a scoprire come tali attività risentano del sistema fiscale e delle relative regolamentazioni. I testimoni includeranno rappresentanti del Dipartimento del Tesoro, dell’Internal Revenue Service, nonché rappresentanti della corporazione multinazionale ed esperti nella materia.

E in effetti è un problema che si fa sentire in tutta la sua portata, soprattutto ora che la crisi non lascia scampo. Ne avevamo parlato tempo addietro: ricordate la “Doppia irlandese con sandwich olandese”? Si tratta di una procedura che “consiste nel trasferire le proprie sostanze verso le sussidiarie irlandesi e olandesi, per poi traghettare il tutto ai Caraibi.” È una tecnica assolutamente legale e piuttosto avanzata, utilizzata praticamente da tutti i big, compresi Google, Amazon, Facebook e Starbucks.

Sono capitali -e solo per Apple parliamo di 83 miliardi di dollari, dati aggiornati al 29 settembre 2012- che restano lì a tempo indeterminato, senza che producano ricchezza per nessuno; aspettando che un legislatore “sensibile al tema” per non dire compiacente che introduca una tassazione agevolata per il rientro in terra patria. Alla fine della giostra, Cupertino paga in media l’1,9% di tasse su quanto incassa, ovvero un’inezia rispetto a noi comuni mortali. E sarà pur vero che crea posti di lavoro e che contribuisce al benessere degli USA in senso lato, ma quando c’è da stringere la cinghia occorre che si faccia tutti uno sforzo commisurato alle proprie possibilità; ed è giunto il momento che anche le multinazionali facciano la loro parte.

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