Apple, 1,9% di tasse sui profitti generati all'estero

Per l'EBIDTA all'estero, Apple non paga neppure l'1,9% di tasse. Merito di triangolazioni lecite nel mercato finanziario mondiale.
Per l'EBIDTA all'estero, Apple non paga neppure l'1,9% di tasse. Merito di triangolazioni lecite nel mercato finanziario mondiale.

Una nuova bomba rischia di deflagrare a Cupertino dopo il polverone per le condizioni di lavoro in Cina (tuttora sotto osservazione dei media) e le polemiche dei dipendenti retail (che hanno portato alla dipartita prematura di Browett). Su 36,87 miliardi di dollari di utile d’esercizio fuori dagli USA, infatti, Apple avrebbe pagato appena 713 milioni di dollari in tasse; se non fosse chiaro, stiamo parlando di un’aliquota media di neppure il 2%.

La scoperta l’hanno fatta quelli del Sunday Times frugando tra le cifre riportate nella documentazione dello scorso anno fiscale consegnata come da prassi alla Securities and Exchange Commission (SEC). E il dato è disarmante: 713 milioni di tasse su quasi 37 miliardi di dollari di utili; a mo’ di paragone, basti pensare che a casa sua -negli USA- la mela ha sborsato 12,26 miliardi di dollari in balzelli federali e 1,06 miliardi negli omologhi statali, con un’aliquota media del 35%.

Ovviamente non c’è nulla di illegale in tutto ciò. Semplicemente, si sfruttano in modo intelligente le lacune nelle varie legislazioni del mondo, e con movimentazioni bancarie si sposta con facilità i profitti nei paesi in cui la tassazione è più leggera. Un esempio di tale strategia è il cosiddetto “Doppia irlandese con sandwich olandese” (Double Irish With a Dutch Sandwich), una procedura che consiste nel trasferire le proprie sostanze verso le sussidiarie irlandesi e olandesi, per poi traghettare il tutto ai Caraibi. Si tratta d’una tecnica avanzata piuttosto nota e assolutamente legale, utilizzata anche da molte altre multinazionali come Google, Amazon, Facebook e Starbucks.

Ovviamente, i fondi stoccati all’estero restano lì e non arricchiscono né il Vecchio Continente né gli Stati Uniti; se infatti rientrassero in qualche modo, non potrebbero poi sfuggire alla tassazione ordinaria, motivo per cui non si schiodano di lì. E non sono neppure pochi spiccioli: al 29 settembre 2012, Cupertino vantava un tesoro di 82,9 miliardi di dollari stipati nei paradisi fiscali contro i 74 miliardi del 30 giugno scorso.

Ecco perché Apple, Cisco e molti altri colossi dell’arena high tech -lungi dal mettere in campo un comportamento virtuoso- stanno facendo attività di lobbying per convincere il governo federale a introdurre una tassazione ultralégère per il rientro dei capitali dall’estero. E non è un discorso populista: la distinzione tra illecito e immorale non è mai stata così socialmente compresa come nel periodo storico in cui viviamo. L’operato di Apple è corretto, ma è immorale che una società coi suoi bilanci restituisca alla collettività appena l’1,9% di quanto incassa, perché a nessun comune cittadino potrà mai essere garantito un simile trattamento.

Poi per carità, ribadiamo quanto scrivemmo tempo addietro per delle polemiche analoghe: “l’indignazione è comprensibile, ma non è ad Apple che deve essere indirizzata.” E infatti è chi fa le regole che dovrebbe decidersi una buona volta a dare inizio ad un’inversione di tendenza che redistribuisca la ricchezza e renda svantaggioso l’accumulo di capitale. È tempo di tornare a premiare l’economia reale, quella che fa bene alla gente e al Paese.

Photo | The Drill Down

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